di Stefano Santarsiere
una storia d'amore
Io mi siedo e osservo.
Lo faccio per intervalli lunghissimi. Per ore, giorni interi.
Mi sistemo la sedia davanti alla porta, le persone attraversano la strada a passo veloce o con aria svagata. Si incontrano, si fermano a scambiare due parole. Poi vanno via. Alcuni indugiano all’ombra del vecchio olmo; in questa stagione fa molto caldo. Si tolgono il cappello e si sventolano, come se oltre al sudore volessero asciugare la fatica - quella fatica di vivere che io non sento più.
Non fanno caso a me, che osservo. Hanno smesso di prestarmi attenzione anni fa. C’è stato un tempo in cui ero proprio come loro: andavo dappertutto e mi fermavo all’ombra di quest’olmo per riposare. Ogni cosa aveva un aspetto diverso. Le strade correvano sotto i miei piedi come stelle comete. Le facciate delle case, le colline dietro il paese, ogni cosa formava un quadro dinamico e indistinto al quale non gettavo mai uno sguardo in più. Le persone popolavano questo mondo come pesci guizzanti: entravano e uscivano da esso con i ritmi della mia e della loro frenesia.
Adesso dipende tutto da loro. Vanno e vengono a proprio gusto, perché io resto qui a osservare. Sempre. Fin quando gli occhi mi lacrimano e le immagini si accumulano sul cuore come foglie secche, soffocandolo.
Mi alzo soltanto per aprire il mio vecchio coltello. Quello con il manico di legno che usavo da ragazzo, al pascolo, per tagliarmi il pane. La lama si è fatta sottile e opaca proprio come la mia faccia. Ma ha ancora la forza di raccogliere la luce in riflessi bruni, di radunarla sul filo del taglio. E di trasformarla nel vigore necessario per incidere la corteccia dell’olmo.
Piccoli tagli. L’uno di seguito all’altro.
A volte mi concentro sugli anni trascorsi e devo fare uno sforzo per accettare che siano tanti. Perché ricordo ogni cosa.
Ad esempio il giorno di Pentecoste, quando indossavo i pantaloni neri e papà mi portava in chiesa. Il paese era pieno di soffioni, nell’aria un intenso profumo di bella stagione. Credevo che quel mondo, quell’aria, non dovessero mai cambiare. Mai smettere di profumare dei gladioli e delle rose fiorite che la gente metteva alle finestre.
Ricordo il giorno in cui i tuoi occhi si aprirono la prima volta su di me. Quanto tempo era trascorso senza che tu vincessi il pudore di guardarmi davanti a tutti, in chiesa o per la strada. E poi, in quel maggio, il sole si fece due volte più luminoso.
Ero al pascolo, come sempre, quando ti vidi in fondo alla strada col cestino in mano. Così all’improvviso che pensai di sognare.
Venivi a dirmi che eri preoccupata per me - perché era scoppiata la guerra.
Ma che importava? Avrebbero potuto scoppiarne mille, di guerre, se ciò serviva a portarti lassù, in quel campo dove trascorrevo i miei giorni a pensarti, a immaginare il tuo volto all’ombra dell’olmo.
Altri tagli. Uno vicino all’altro.
Non avevo mai disprezzato la solitudine. Era bello passare buona parte della giornata privo di compagnie. Ma dopo quel mattino che eri venuta al pascolo, ogni minuto trascorso senza di te mi risultava insopportabile. Sei stata tu a insegnarmi a osservare. “Che bello il colore del fieno dopo la pioggia,” dicevi. Come se il miracolo di un acquazzone valesse i racconti di cento vangeli. “Guarda come brillano i fiori di pioppo lungo il fiume!”
Prendevo i tuoi inviti a cogliere i particolari del mondo come incentivi a esserti degno. E allora scrutavo ogni dettaglio che mi indicavi: gli steli secchi del campo, la nuvola che spuntava dietro la collina, il ronzio del calabrone. Per ciascun oggetto cercavo un pensiero che fosse all’altezza del tuo entusiasmo, e per aiutarmi, immaginavo che quella cosa eri tu. Tutti quei particolari diventavano piccoli tesori, cose troppo belle per essere ignorate.
Come te.
E così, gli oggetti che circondavano la nostra solitudine divennero il tramite che ci rese sempre più vicini. In essi si riflettevano i nostri sentimenti, e si amplificavano i desideri che non osavamo confessare.
Ricordo la sorpresa quando mi rivelasti che il terreno di fianco al pascolo apparteneva alla tua famiglia. Proprio lì avremmo costruito la nostra casa dopo il matrimonio, a tre metri dall’olmo.
Altri tagli.
Con il mio vecchio coltello.
La speranza che il mondo non dovesse mai cambiare, sembrava resistere nei primi anni di guerra. Di quel dolore immane calato sull’umanità, in paese sentivamo solo un’eco lontana, portata dai racconti dei reduci o dalla mitologia di chi possedeva una radio in casa. Ma l’aria profumava meno. La povertà ingrandiva gli occhi delle persone, in essi si rifletteva il timore verso il futuro.
Lo stesso timore vidi esplodere nei tuoi quando un anno dopo giunse la lettera.
Di nuovo tagli.
Nel legno.
Ecco, amore mio. Non devi dubitare di noi. Mi hai accompagnato in ogni strada che ho percorso. Ho amato te - e per il tuo tramite ho amato la vita anche nel buio e nel freddo. In silenzio mi bastava chiudere una mano per sentire il calore delle tue dita.
Tu ci sei ancora. A volte esci di casa e mi passi davanti, gravata dai decenni in cui hai conservato il ricordo, specchiandolo in una fotografia scattata il giorno prima che partissi per il fronte. E non hai mai smesso gli abiti neri.
Ma la verità è in questo luogo, proprio davanti alla nostra casa. Nel tronco del nostro caro olmo. È in esso che voglio scriverla a te, e al mondo in cui ancora sei, incidendo l’ultimo taglio con il mio vecchio coltello:
"Io sono sempre stato qui".
forse l'unico
Credo di poter dire con una certezza pari 99,9% che questo racconto è uno dei pochissimi, se non addirittura l'unico, che ha ricevuto il consenso per la pubblicazione dalla redazione di Scrigno all'unanimità.
Quindi è da leggere :)
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Una stanza senza libri è come un corpo senza anima.