«Hanno parlato di ferita da coltello.»
«Non possiamo esserne certi. Ancora niente arma.»
«Che altro ti sembra?»
«Di sicuro una lama.»
«Cos’ho detto, io?»
«Lama, non coltello.»
«E che differenza c’è?»
Mi guarda, serissima.
«Che domanda mi fai, stupide.»
Spalanca il portone blindato con una forza che non avresti mai sospettato, in quelle braccia esili.
«Muoviti, entra.»
Chiude la porta, dietro di noi.
La luce al neon si riflette sulle teche di vetro.
«Annabelle…»
Si ferma e spalanca le braccia. Compie un mezzo giro su se stessa, come a voler abbracciare l’intera stanza. I boccoli castani ondeggiano intorno alle spalle. Nonostante tutto, non posso fare a meno di chiedermi come sarebbe affondarci dentro le mani, il viso.
Tu avresti saputo rispondere a questa domanda. Ma io non te l’avrei mai fatta.
«Guardala, la differenza.»
Metto a fuoco il contenuto degli espositori. Coltelli.
Muovo qualche passo avanti, sfioro uno dei vetri con timore quasi reverenziale.
No. Ha ragione.
Una lama lunga come il mio avambraccio e stretta come un dito fa capolino da un’elsa ritorta, incisa con caratteri sconosciuti. Ammicca sotto la luce artificiale.
Che parola riduttiva, coltello.
«Ci taglieresti una bistecca, con questo?»
Deglutisco.
Sposto lo sguardo su una lama piatta e larga, l’impugnatura massiccia.
«È una spada, quella?»
«Una daga. Una rivisitazione moderna, almeno.»
Ho già sentito questa parola. Mi sforzo di aprire e chiudere i cassetti della memoria.
Oddio. Sto iniziando a parlare come te.
Al solito, Annabelle gioca d’anticipo. «Lo spadino usato dagli schiavi romani per i combattimenti nell’arena. Non dirmi che non hai visto Il gladiatore.»
«Già. Vero.»
Non l’ho visto, no. Sapevi che mi annoia tutto quello che c’entra con la storia ma, forse, a lei non l’hai mai detto.
Annabelle fa rimbalzare gli occhi da una teca all’altra, in un flipper che mi fa venire il voltastomaco. Gli occhi azzurri, spiritati. La mascella contratta. Fa quasi paura. «Deve essere una di queste. O una simile. Devo solo capire quale.»
«…e poi?»
«Dimmi che lama usi e ti dirò chi sei, diceva papà. Sono sul punto di trovarlo, Samu. Ci sono a tanto così.»
«…e poi?» ripeto.
«Est èvident. Gli ficcherò una di queste nel cuore personalmente.»
Guardo e riguardo la foto.
Gli occhi spalancati.
La bocca semiaperta, sulle labbra la tonalità violacea che lascia la morte.
Il dito di Annabelle punta lo squarcio frastagliato sotto la gola.
«Posso già dirti una cosa, su questo qui. Non è un professionista.»
«No?»
«No. Guarda che macello. Uno in gamba avrebbe fatto un lavoro pulito, un taglio netto.»
«Ah.»
Sentirla parlare della tua gola squarciata con tale freddezza mi provoca un senso di vuoto allo stomaco. Devo sforzarmi ogni volta per guardare oltre il viso da cherubino, il corpo flessuoso e delicato.
Annabelle non è quello che sembra.
Chissà se anche tu non hai mai scordato la prima volta in cui l’abbiamo vista camminare lungo la strada che portava al Castello, il bavero della giacca di pelle alzato contro il vento di settembre.
La ricordo come fosse ieri, io, quella matassa di capelli che le sferzavano le spalle, una macchia scura contro la sagoma del Jôf.
Si guardava intorno cauta, come se cercasse qualcosa ma fosse restia a chiedere.
Avevo incrociato i tuoi occhi e avevo capito al volo. Bastava un cenno, a me e te.
«Secondo me ha bisogno di noi.» avevi detto, facendo l’occhiolino.
E noi, ovvio, voleva dire te.
Eri partito deciso verso di lei e io un passo dietro te, perplesso.
Annabelle ci aveva visti arrivare e si era fermata.
«Ti sei persa?»
Non aveva risposto.
«Posso aiutarti in qualche modo?» avevi insistito.
Quando ti fissavi con una ragazza, era un casino. Ma, di solito, poi finiva sempre a tuo favore.
«Dipende.»
La voce era stata la prima cosa di Annabelle che mi aveva colpito davvero. Era profonda, lievemente roca, corposa. Non c’entrava nulla con quel viso d’angelo.
«Da cosa?»
«Sapete indicarmi una coltelleria?»
Non era proprio la domanda che ti aspettavi. «Una coltelleria?»
«Sì. Sai, dove producono coltelli.» aveva ribattuto lei, sarcastica.
Poi aveva fatto una cosa che nessuna altra ragazza prima, in occasioni simili, aveva mai osato.
Aveva distolto l’attenzione da te per spostare gli occhi su di me.
«Lo sai, tu, dove posso trovarne una?»
Ho scambiato un’occhiata nervosa con te. Potevo risponderle, io?
Ma ti sei ripreso subito. «Sei nella patria dei coltelli, mia cara. A Maniago ci sono coltellerie praticamente ad ogni angolo.»
«Lo so. Sono qui per questo. Ma vorrei che mi indicaste la migliore.»
Eravamo rimasti entrambi sbattezzati dalla sicurezza che traspariva da ogni sua parola, ogni suo gesto.
La guardo ora, china sulla foto che ci ha venduto il giornalista, ed è come se, da quel giorno in cui la accompagnammo alla coltelleria di tuo padre, fossero passate poche ore.
Invece è più di un anno.
«Annabelle non credo dovresti essere tu a occuparti di questo.»
Mi scocca uno sguardo incandescente.
«E chi altro?»
«La polizia, ad esempio.»
«La polizia se ne frega, Samuele. Hanno chiamato l’unità di Pordenone ormai da una settimana e ancora non hanno lo straccio di un indagato. Né un movente. Rien ne rien.»
«Sì ma…»
«Ale era il tuo migliore amico. Non vuoi vedere morto chi ha fatto questo?» getta la foto sul tavolo verso di me, in uno scatto stizzoso.
«Sì certo. Ma.... forse non sei abbastanza lucida per...»
«Parle pour vous. Io sono lucidissima.»
Si siede sulla poltroncina accanto alla teca più piccola, accavallando le gambe.
Mi appoggio contro il bordo del tavolo, a disagio dentro il deposito di tuo padre. In tanti anni in cui siamo stati amici, non mi avevi mai portato qui dentro. In realtà, prima di incontrare Annabelle, il tuo interesse per l’attività del vecchio era pari a zero.
«Dev’essere una lama lunga, sottile. Piatta.»
La guardo, ma non sta parlando con me. Gli occhi sono offuscati. Le unghie corte ma curate tamburellano sul bracciolo.
Una volta le avevi chiesto perché non portasse le unghie lunghe e laccate come la maggior parte delle ragazze della sua età. Annabelle ti aveva guardato con sufficienza, però poi mi aveva sorriso e aveva sussurrato “non è tenero?”.
A quanto pare, nonostante la sua scorza dura, eri riuscito a colpirla.
«Neanche i pianisti possono tenere le unghie lunghe.» aveva risposto.
«Suoni il piano?»
«Non proprio.»
Il primo a cui Annabelle aveva detto la verità, però, non eri stato tu.
Chissà se lei te l’ha mai confessato, questo.
Io avrei dovuto, ma non ci sono riuscito. Sapevo che ti avrebbe ferito nell’orgoglio.
Annabelle si alza e ricomincia a camminare, avanti e indietro. Poi si avvicina a una teca e fa scorrere il vetro.
«Cosa fai?»
Guarda a lungo i coltelli, tutti posati in fila sul velluto rosso, e alla fine ne sceglie uno dal manico d’osso, cesellato a creare una sorta di rosa sul fondo. La lama non è troppo lunga, ma appuntita come uno spillo.
Lo prende in mano, saggia l’impugnatura come farei io con una racchetta da tennis. Muove qualche fendente, assorta; il sibilo della lama che aggredisce l’aria è quasi musicale. La guardo affascinato piroettare spostando il peso da una gamba all’altra, con maestria; un’ultima giravolta e scatta verso di me. Ancora prima di riuscire a espirare, mi ritrovo le braccia immobilizzate dietro la schiena e il suo avambraccio sotto il mento, la punta della lama contro la curva della gola.
Il corpo di Annabelle aderisce alla mia schiena, immobile.
«Morto.» mi sussurra all’orecchio, prima di lasciarmi andare. Incespico nei miei piedi e cerco di riportare i battiti del cuore a un livello umano.
«Sei impazzita? A momenti muoio davvero, di paura!»
«Potrebbe essere questo.» annuisce soddisfatta, come niente fosse «È leggero, maneggevole. Adatto a un principiante.»
Me lo porge, tenendolo per la lama tra due dita «Tieni, prova.»
«No. No, grazie.»
«Avanti.»
«Non ci penso nemmeno.»
«Avanti.» forza le mie dita a stringere l’impugnatura «Basta solo prenderci la mano», e mi posa un bacio leggero sul naso, per farsi perdonare.
Maneggio il coltello con la cautela che riserverei a una granata innescata. La mano trema. La fisso fino a che non smette.
Annabelle ride.
La sua risata non è cambiata di una virgola. Come quella volta.
Seduti sugli scalini di Piazza Italia, dietro di noi il bisbigliare dell’acqua della fontana, aspettavamo te. Le stelle d’estate ammiccavano sopra di noi. Annabelle indicava i disegni delle costellazioni e io dicevo i loro nomi.
«Orsa Maggiore.
Cassiopea.
Orione.»
«Come fai a conoscerli tutti, Samu?»
«Mi piace l’astronomia. Vorrei fare questo, da grande.»
«Dare nomi alle stelle?»
«No, sciocca. Osservarle. Studiarle.»
Aveva riso e il suono era rimbalzato sui muri delle case, riempiendo la piazza deserta. «Très doux.»
Quella era stata la prima volta che l’avevo sentita parlare francese.
Avevo fatto finta di niente, perché mi avevi detto che Annabelle non parlava volentieri di sé. Ma sapevo già quello che le avevi estorto, con fatica. Che era nata in un paesino della Provenza, dalle parti di Avignone. Che non era stata all’università. Che suo padre, prima di morire, le aveva insegnato tutto quello che sapeva sul suo mestiere.
Nient’altro, fino a quella sera.
«Non sono dolce.» avevo ribattuto, un po’ seccato dall’istinto materno che continuava a dimostrare nei confronti del migliore amico un po’ nerd del suo ragazzo.
«Nemmeno io.» mi aveva preso sottobraccio, posandomi la testa sulla spalla «Andiamo d’accordo, quindi.»
«Sei proprio strana.» avevo ammesso, forse imbaldanzito dal suo slancio d’affetto e dall’intimità della piazza immersa del silenzio.
«Lo so. Anche tu.»
«Io sono normale, che più normale non si può.»
«Ah sì? E che vuol dire normale?»
«Boh. Normale. Sai… tipo normale che se fossi una donna avrei le unghie lunghe e laccate.» avevo scherzato, ripensando a quell’episodio. Ma Annabelle no.
«Già. Ale è dolce e lo adoro ma a volte è un po’ troppo pieno di sé per riuscire a vedere le cose con occhi diversi dai suoi.»
Il cambio repentino di tono e di argomento mi aveva fatto irrigidire. Non si parla male del proprio migliore amico con la sua tipa. È una di quelle regole non scritte sull’amicizia, tipo quando mi guardavi con certi occhi e capivo al volo che quella ragazza me la potevo scordare.
Già.
«Non saprei.» avevo temporeggiato. «Magari se tu rendessi le persone un po’ più partecipi… se ti facessi conoscere un po’ di più…»
Annabelle si era sollevata, trapassandomi con lo sguardo.
«…da lui o da te?»
Avevo sentito il calore sulle guance. Lei aveva sorriso di nuovo, ma era un sorriso triste.
«Vuoi la verità, Samuele?»
«Dipende.»
«Da cosa?»
«Se me la vuoi dire.»
«Solo se prometti di non rivelare niente ad Ale.»
Devo aver avuto un’espressione inorridita, perché subito Annabelle aveva continuato. «No, voglio dire… fino a quando non sarò io a parlargliene. Tutto qua.»
«E perché non vai direttamente da lui?»
Si era tolta i capelli dagli occhi. Per la prima volta, sembrava un po’ meno sicura di sé del solito. E più bella che mai. Ma quel pensiero lo avevo soffocato e ucciso sul momento.
«Perché ho paura.» aveva sussurrato, alla fine.
Paura? Lei non aveva paura di niente.
Anche adesso la guardo studiare la lama, confrontarla con la foto del taglio che ti ha tolto la vita otto giorni fa e mi sembra così calma. Così sicura di riuscire. Di farsi giustizia da sola.
Perché è questo, che Annabelle è abituata a fare. Per sé e per gli altri.
«Di cosa hai paura?» le avevo chiesto quella notte.
«Che non capisca.»
«E io, non hai paura che io non capisca?»
«No.» l’aveva detto all’istante, senza esitare, e il mio cuore aveva perso un battito.
«Allora dimmi.»
«Il motivo per cui sono qui a Maniago.»
«Il coltello.»
«Non vi siete mai chiesti perché avevo bisogno di un coltello su misura?»
Certo. Ogni singolo giorno dopo averla incontrata. E tu volevi che fossi io a chiederglielo. Perché sarebbe stato più facile ficcanasare, per me. Non avevo mica quel tipo di legame, con lei.
Ironia della sorte, non avevo avuto bisogno di chiedere nulla.
Ero rimasto a fissarla, nella testa una muta preghiera che si ripeteva incessante.
Che tu tardassi ancora, ovvio. Che mi fosse concesso quel piccolissimo spiraglio del cuore di Annabelle.
«Guardami, Samu. Non c’è qualcosa di incredibilmente sbagliato, in me?»
«Non saprei.»
«Bugiardo. Ma grazie.» e mi aveva sfiorato la guancia con un bacio leggero «E invece sì. Il coltello che il padre di Ale sta costruendo è per me. Mi serve.»
«Ti serve?»
«Sì.»
Aveva aperto la bocca. L’aveva richiusa. Come se non sapesse bene cosa fare uscire da quelle labbra che continuava a morsicarsi. Poi, alla fine, aveva preso un bel respiro e l’aveva semplicemente detto.
«Io ammazzo la gente, Samu. Su commissione.»
Le sue parole erano chiare. Di più non si poteva. Eppure il mio cervello aveva tentato di scombinarle, di cambiarle, di sezionarle, di trovare un altro modo di metterle in fila. Un altro significato.
Ma mica c’era, un altro significato.
Mi sono sempre chiesto come avresti reagito, tu, al mio posto.
Cioè, lo so come hai reagito. Quando te l’ha confessato sei arrivato da me isterico, con la tua faccia da non crederai mai a quello che sto per dirti. Ma se ti fossi trovato lì, quella notte, così… non lo so. Ho la presunzione di pensare che sarebbe stato diverso.
«Samu. Mi ascolti?»
La voce allarmata di Annabelle mi strappa al ricordo di quella notte – sembrano passate ere geologiche, non mesi – e mi fa ripiombare nel deposito.
«Sì, scusa.»
«Dicevo… c’è un’altra cosa che si vede, qui. La persona che ha sgozzato Ale è mancina.»
Sgozzato. Che brutta parola. Disarmonica. Aggressiva.
«Come lo sai?»
Scrolla le spalle.
«L’andamento della coltellata. L’angolazione. Lo so perché sono mancina anch’io.» Un momento di silenzio, nel deposito. «E anche tu.»
Mi scruta come se potesse leggermi attraverso. Lo stesso sguardo indagatore di quella sera.
Il passato continua a perseguitarmi. Annabelle seduta accanto a me, con lo sguardo di un coniglio arrivato in fondo al tunnel, senza vie d’uscita. «Samuele?»
«Sì.»
«Potresti dire qualcosa? Qualsiasi cosa?» aveva continuato, lanciando un’occhiata furtiva al lato della piazza da cui sapevamo entrambi che tu saresti comparso.
«Ammazzi i buoni o i cattivi?»
«Non siamo in un fumetto della Marvel, Samu. Fa differenza?»
«Sì che la fa.»
«Un coltello alla gola è sempre un coltello alla gola.»
«E allora Annabelle è sempre Annabelle.»
Di colpo mi ero ritrovato tra le sue braccia. Un abbraccio fugace, che mi aveva lasciato addosso un lieve profumo di lavanda. Si era scostata subito. Avrei giurato per un attimo di aver scorto un luccichio nei suoi occhi, ma poteva benissimo essere il riflesso dei lampioni. Non ho la pretesa di pensare che si fosse commossa.
«Lo sapevo.»
«Cosa?»
«Che avresti capito.»
Poi i tuoi passi sul selciato, rapidi. Annabelle si era raddrizzata, lo sguardo oltre me, oltre noi. Un sorriso era sbocciato sul suo viso, mentre si alzava per venirti incontro. E così, in un istante, il nostro momento era svanito.
«Samu?»
«Sì.» mi costringo a tornare al presente «Ti stavo ascoltando.»
«Non è vero.»
Sospiro.
«Hai ragione, non è vero. Scusa. È che… non ce la faccio a pensare. A indagare. Non ci riesco proprio. Io non sono come te.»
«Come me?»
«Fredda. Efficiente.»
« Ils ne sont pas aussi.»
«Sai cosa voglio dire.»
Annabelle incrocia le braccia sul petto. Un’ombra scura sugli occhi.
«No. Non lo so. Fammi capire bene.»
Esito. Ma non posso più tacere.
«Ecco, io credo di non poterti aiutare. Io… Ale era il mio migliore amico. Sto ancora cercando di riprendermi dal funerale, di cancellare dalla mente i suoi occhi vuoti, il freddo della pelle, tutto quel rosso sulla maglietta verde – gliel’avevo regalata io, sai? –, l’odore dolciastro dei fiori sulla tomba e tu vieni qua, mi sbatti davanti agli occhi una foto della sua autopsia e pretendi che entri in modalità CSI… Farei qualunque cosa per te Annabelle, lo sai, ma questo… non ne sono capace. Mi dispiace.»
La sua mascella si irrigidisce, ma non dice nulla. Distoglie lo sguardo da me.
Aspetto.
Ho imparato che i suoi silenzi non durano mai più di tanto.
Come quella sera. Poche settimane prima.
L’avevo trovata sul muretto, fuori casa. Le mani affondate nelle tasche del cappotto e i capelli sugli occhi. Appena mi aveva visto, si era alzata.
«Facciamo due passi?» aveva chiesto, con noncuranza.
«Facciamoli.»
Avevamo camminato per quasi un’ora sul sentiero che costeggiava il Colvera, verso i boschi. Io scrutavo la sua figura assorta senza dire nulla, aspettando. A un certo punto, si era fermata. Aveva raccolto un sasso e lo aveva lanciato nell’acqua: tre salti, lasciando dietro di sé una scia di cerchi che si erano allargati sulla superficie fino a scomparire. Poi si era girata verso di me.
«Nessun altro sarebbe rimasto in silenzio tutto questo tempo, sai.»
«Lo so.»
«Allora cosa aspetti a dire qualcosa?»
«Sei venuta da me. Pensavo fossi tu, ad avere qualcosa da dire.»
Annabelle aveva riso, ma stavolta era un suono sgraziato.
«Vorrei che con Ale fosse così facile, sai. Come con te.»
«Cosa?»
« Tous.»
Ero rimasto immobile, senza sapere bene cosa dire. Mi parlava di te raramente, ma tutte le volte era così seria.
«Lui non riesce ad accettarlo, sai.»
«Cosa?» Sapevo benissimo cosa non accettavi, eccome se lo sapevo, ma avevo chiesto lo stesso.
Annabelle mi aveva scoccato un’occhiata eloquente.
«Sì, quello.»
«Te ne ha parlato, Samu?»
Non avevo risposto. Mi ero stretto la giacca addosso.
Lei aveva sospirato. «Sì, lo so. È amico tuo. Non si fa la spia.»
«No.»
Annabelle era tornata verso di me. Mi aveva sfiorato il braccio con la mano.
«L’ho usato, Samu. Il coltello.»
«Quello che ha fatto il padre di Ale?»
«Sì.»
«E…?»
«È perfetto. Sembra creato apposta per me.»
«Non era ciò che volevi?»
«Sì. Ero venuta a Maniago per questo.»
«E allora cosa c’è?»
Aveva distolto lo sguardo. I capelli un’ombra scura sugli occhi.
Avevo coperto la sua mano con la mia.
«Mi dispiace. Non dev’essere facile.»
«Adesso lo è meno. Vorrei davvero che Ale capisse.»
«Oppure vorresti smettere?»
Mi aveva fissato, inorridita. «No.» aveva sottratto la mano alla mia, come se scottassi «No. Questo è quello che faccio. Quello che mio padre mi ha insegnato. Quello che sono.»
«Allora Ale dovrebbe capire.»
«Sì.»
«E tu non dovresti sentirti in colpa se usi il coltello di suo padre per uccidere.»
«No.» si era morsa il labbro inferiore «Non dovrei.»
E quella sera l’avevo vista, davvero stavolta. Ma Annabelle si era strofinata gli occhi all’istante, cancellando la lacrima solitaria che era rimasta impigliata nelle ciglia. Gli occhi da cerbiatto, però, erano arrossati e ombre violacee si allungavano sugli zigomi.
«Buonanotte, Samu.» aveva sussurrato «Va’ a casa, è tardi.»
È come se la sentissi ancora adesso, la sua voce bassa ed esitante.
Va’ a casa, Samu.
Apro gli occhi. Non mi ero nemmeno accorto di averli chiusi.
«Va’ a casa, Samu.»
Non lo stavo immaginando. Riporto l’attenzione su Annabelle, qui e ora. Mi sta fissando, le mani affondate nelle tasche. Gli occhi infossati nelle orbite. Ci sono state altre lacrime, dopo di quella. Lacrime che avrei preferito non vedere.
«Come?»
«Ho detto, va’ a casa. Hai ragione. Non dovresti essere qui. Non è giusto.»
Il panico mi stringe il petto. Il cuore sussulta.
«Ma…»
Scuote la testa. «Sono stata egoista e insensibile. Io sono io. Ma tu no. E non meriti questo.»
Si avvicina con quella camminata aggraziata, felina, che all’inizio non sapevo a cosa paragonare. Ora lo so. È quella di un predatore.
Come se avesse potuto intuire i miei ricordi, come quella notte in piazza sotto le stelle, Annabelle mi abbraccia.
«Pardonnez-moi, mon ami.» sussurra all’orecchio, mentre i boccoli mi solleticano la guancia. Stasera non sa di lavanda. Affondo il viso nei suoi capelli ed esito, la mano a pochi centimetri dalla sua schiena. Una distanza minima, ma così difficile da colmare.
Le dita di Annabelle, invece, mi accarezzano la nuca in una danza fredda. Il cuore sussulta.
Poi lo sento.
Il dolore è istantaneo, un lampo gelido.
Spalanco gli occhi. Cerco di respirare, ma un sibilo sfiatato mi sfugge dalle labbra.
Annabelle si scosta appena, il suo naso quasi sfiora il mio. Vedo i miei occhi nei suoi, allargarsi, ingigantirsi.
È stato così anche per te? Ti sei visto morire riflesso nei miei occhi, Ale?
Boccheggio. L’aria fugge via dai polmoni.
Un movimento secco che mi regala un’altra fitta ed eccola tra le sue dita. La lama. Aveva ragione, sembra davvero fatta per lei. Elegante, sottile, aggraziata e letale.
Proprio come Annabelle.
Guardo il mio sangue sul coltello e rivedo il tuo, la macchia che si allarga sulla maglietta mentre cadi a terra. I tuoi occhi vuoti, muti, come in quella maledetta foto.
Avrei dovuto usare una pistola, penso stupidamente.
Non un coltello.
Ma che altro potevo trovare, qui, a Maniago?
Sento le forze scivolare via, giù per le gambe. Annabelle mi sorregge con l’altra mano e mi adagia a terra, con cautela.
«Sei così bella.» glielo dico ora, finalmente; la mia ultima occasione per farlo.
«Stupide.» continua a scuotere il capo, i capelli che dondolano, e mi accorgo che sta piangendo.
Con un estremo sforzo, il mio cervello si mette in moto e capisco.
«La maglietta.» sussurro, così piano che per sentire lei deve chinarsi su di me.
Non si vedeva, nella foto del reporter. E non ero andato all’obitorio per riconoscere il corpo, dopo il ritrovamento. Come potevo sapere di che colore era la sua maglia?
Annabelle annuisce. Posa il coltello a terra, per prendermi il viso tra le mani.
«Non avresti dovuto, Samu. Sapevi che non l’avresti passata liscia. Che io ti avrei scoperto. È quello che faccio.»
«È quello che sei.» Un altro sibilo sfiatato.
«Già. Io, non tu. Non avresti dovuto.» ripete, come un mantra «Non dovevi, merde.»
Vorrei tenere gli occhi aperti, ma è davvero troppo faticoso.
Avrebbe dovuto essere il suo viso, l’ultima cosa che avevi visto, non il mio. Ma io lo volevo per me. Solo per me.
E invece, Annabelle non era mai stata mia. E nemmeno tua, a dire il vero.
Mi arrendo e chiudo gli occhi, portando via con me il profilo delicato del suo viso da cherubino, le labbra piene, gli occhi grandi, arrossati.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Che poeta era? Non ricordo.
Ma il tocco speciale di Annabelle. Il suo coltello.
Questo sarà solo mio.
Almeno questo.
Elisa
Verrà la morte ma non avrà solo i tuoi occhi.
Mi rallegro per... se Anna è bella Annabelle mi ha riportato la memoria.
Buon tutto Samu.