scrigno

leggere nuoce gravemente all'ignoranza

Una tazza di cioccolato

di Simone Valtorta
Immagine di Barbara Bolzan
a volte sono i piccoli gesti a suscitare le emozioni più grandi
«Mai stato con una di quelle lì!»
Dove avevo letto questa frase? In qualche libro, mi sembrava… ma non riuscivo a ricordare quale…
Questo pensiero mi tornava però alla mente ogni sera, puntuale come una maledizione che si teme ma a cui non ci si può sottrarre, mi s’insinuava nella mente quando, superate le ultime costruzioni della periferia monzese, imboccavo la Valassina per tornare a casa al termine di una lunga e noiosa giornata lavorativa.
Loro erano là, invariabilmente, ogni notte, sia che spirasse il vento gelido di febbraio, sia che soffiasse la tiepida brezza di fine giugno: da sole, o in crocchi, a gruppi di tre, quattro, sotto le luci al neon dei grandi ipermercati vuoti di clienti o strette intorno ai falò come falene attirate dalla luce; ormai avevo quasi imparato a riconoscerle una ad una, come delle vecchie amiche: c’era Liudmila, ucraina, portata in Italia col miraggio di un lavoro e poi costretta a prostituirsi; Kora, nigeriana, legata ai suoi sfruttatori dopo una cerimonia negromantica che aveva troppa paura a sfidare; e Stella, che si vendeva agli altri per potersi pagare gli studi di filosofia all’Università.
Ogni sera, passando davanti a quella specie di «spaccio del sesso», mi veniva da pensare a come poteva essere quella vita «deviata», qual era l’essenza di quel mondo tanto vicino a me eppure separato da un abisso che mi appariva incolmabile. Quali erano i sogni, i desideri di quelle ragazze? Un lavoro, una famiglia… una vita normale, forse? Ma che cos’era, per loro, la normalità? Un termine vuoto, o una parola che aveva ancora un senso? E quale gusto, quale piacere poteva spingere qualcuno ad unirsi a loro, per il breve spazio di un’ora? E poi altri pensieri ancora, che sarebbe troppo arduo cercare di fissare sulla carta, troppo caotico descrivere in parole.
Talvolta avevo anche rallentato, passando di lì, quasi un oscuro impulso m’imponesse di fermarmi; e sempre, se una di loro accennava a venire verso di me, ancheggiando in un modo che voleva essere seducente – ma che io non trovavo altro che triste, o ancora di più, disperato –, allora sgommavo, mi allontanavo, mordendomi le labbra fino a farle sanguinare. Mi sentivo sporco, come mai mi ero sentito in vita mia; insozzato dal semplice pensiero.
Verso la metà di febbraio, il freddo calò sull’Italia con l’impeto di una mandria di bufali lanciati al galoppo; era stato un inverno abbastanza mite, fino a quel momento, e l’ondata di gelo fu tanto più devastante in quanto nessuno se l’aspettava: spazzò via le gemme dagli alberi in prima fioritura, costrinse la gente a riporre negli armadi gli abiti primaverili ancora odoranti di naftalina e ad imbacuccarsi in sciarpe, guanti e cappelli di lana; anche il mormorio dei torrenti fu soffocato dal formarsi del ghiaccio.
Le ragazze erano ancora là, infagottate in maglioni troppo ampi, strette l’una all’altra quasi che la vicinanza dei corpi potesse scaldarle.
Un giorno, presi una decisione che, a rifletterci a mente lucida, sarebbe potuta apparire assurda; fu una specie di ispirazione, qualcosa di irrazionale – mi sono sempre sentito attratto dalle iniziative irrazionali.
Avevo preparato tutto con cura: un bel po’ di cioccolata tenuta in caldo nel thermos; i miei colleghi, al lavoro, avrebbero fatto festa se l’avessi offerta.
Ma la cioccolata non era per loro; era per qualcuno che non aveva la fortuna di passare le ore del giorno in locali ben riscaldati, che non poteva prendersi un caffè a metà mattina e che non trovava, una volta tornato a casa, un bel piatto fumante di pastasciutta. Era per le ragazze!
Quando lasciai l’ufficio e salii in macchina, per tornare verso casa, rimuginai a lungo sull’assurdità della cosa. A che scopo offrire una tazza di cioccolata a persone che passavano intere giornate nella morsa del gelo – un gelo sia esterno che interno, un’assenza di qualsiasi calore umano –? Come avrebbero considerato un gesto che voleva solamente essere gentile? Avrebbero potuto fraintenderlo, forse ritenerlo una presa in giro, o addirittura un’offesa? Che cos’avrei potuto rispondere, se mi avessero chiesto perché lo facevo?
Le ragazze erano esattamente dov’erano sempre state ogni notte, nel grande parcheggio dell’ipermercato le cui luci, accese sebbene fosse l’ora di chiusura, sembravano messe lì solo per illuminare loro. Quasi fossero oggetti in vetrina – di certo, era così che venivano trattate, merci senz’altro valore che quello che si poteva ricavare dai loro corpi (involucri privi d’anima), fintantoché rimanevano desiderabili.
Il parcheggio era vuoto, e numerosi angoli restavano immersi nell’ombra; poteva venir da pensare che l’architetto che l’aveva progettato fosse stato a conoscenza di chi l’avrebbe frequentato di notte e avesse voluto predisporre degli spazi bui per le fugaci «coppie» che vi si fossero appartate.
Scalai le marce, la terza, la seconda; passai davanti ad un bidone a cui le ragazze avevan dato fuoco per scaldarsi, tenendo gli occhi bassi, timoroso di sollevare lo sguardo. Avevo paura di incrociare i loro occhi. Feci un’ampia curva e mi fermai in una zona in penombra. Scesi dall’auto, osservandole da lontano. Aspettando che fossero loro a fare la prima mossa.
Per alcuni secondi non accadde nulla. Poi, dal gruppo si staccò un’ombra scura – Liudmila, la riconobbi dai capelli biondoscuro – e cominciò a venire verso di me. Per lei era ovvio che io fossi un cliente, non potevo essere nient’altro. Il ticchettio dei suoi tacchi a spillo sull’asfalto umido era regolare e rapido come quello di una bomba ad orologeria.
«Ciao. Ti serve compagnia?»
Sobbalzai a quella voce che cercava di essere roca e sensuale, ma appariva invece bassa, resa ancor più aliena dal cattivo accento. Repressi a fatica un «no» che mi era salito spontaneo alle labbra e sollevai lo sguardo, dalle scarpe a punta alle lunghe gambe ingabbiate nelle calze a rete, alla gonna cortissima, al maglione scollato che copriva appena metà del seno prosperoso, al viso.
Era la prima volta che osservavo «una di quelle» così da vicino, e la cosa fu un vero shock: non aveva un volto, aveva una maschera, un qualcosa da bambola, di ceramica. Le sue labbra erano tinte di un colore rosso tanto intenso, da essere quasi nero, e spiccavano in modo provocatoriamente osceno su un viso che, malgrado fosse stato ripassato con un fondotinta opaco, conservava ancora il candore della pelle delle regioni nordiche. Gli occhi erano chiari, sottolineati da un ombretto pesante sembravano quasi neri, e per di più pesti quasi fossero stati colpiti da un pugno. I capelli erano un cespuglio arruffato d’un biondo fuligginoso.
«Sono brava e costo poco. Venti euro e faccio tutto» continuò, invitandomi, quasi stizzita dal mio silenzio. Era giusto: lei doveva lavorare, non poteva perder tempo con un muto. Oppure, più semplicemente, temeva che me ne andassi e quindi avrebbe dovuto aspettare un altro cliente.
«Io… non volevo far niente» balbettai, confuso, «desideravo solo offrirti una tazza di cioccolata calda». Tirai fuori il thermos dall’auto e glielo mostrai, come se questo potesse spiegare tutto.
Nei suoi occhi si rifletterono una ridda di emozioni. Su tutte brillò una luce maligna e la bocca assunse una piega amara: «Tu sei uno di quelli, vero?» mi sputò in faccia, guardandomi con l’espressione con cui io avrei fissato una tarantola. «Sei uno di quelli che non pagano, che pensano di comprarti con un pezzo di cioccolata…»
La violenza che sentivo vibrare in quelle parole, pronunciate a bassa voce, mi colpì fino a farmi barcollare. Chiamai a raccolta tutto il mio coraggio per rispondere: «Io… non intendevo offenderti. Solo essere gentile. Nient’altro». Frugai nel portafoglio e tirai fuori una banconota da venti euro. Gliela porsi tendendo il braccio: «Tieni. È tua. E non voglio nulla in cambio».
Fissò la banconota con l’espressione di chi non capisce: «Chi sei?» chiese sospettosa, senza prendere i soldi. «Sei uno della polizia? Uno dei… servizi sociali? Un prete?»
Mi sforzai di sorridere, e di essere sincero: «No, sono un impiegato. Lavoro alla Export Inc., qui a Monza. Faccio questa strada tutte le sere, per tornare a casa, e… beh, mi son detto che fa freddo, che forse avresti gradito qualcosa di caldo, e… so che è quasi nulla…»
«Perché? Tu non sei uno di quelli che vengono…» Non finì la frase.
«No» la rassicurai, «non sono un cliente». Svitai il coperchio del thermos, lo capovolsi (era di quelli a forma di tazza) e lo riempii di cioccolata, densa e bollente. Le porsi la cioccolata con una mano e i soldi con l’altra.
I suoi occhi erano lucidi ed umidi; il labbro inferiore tremava leggermente, come in preda ad un irrefrenabile tic. Allungò entrambe le mani verso la tazza, la prese; la portò alle labbra sorseggiandola piano; chiuse gli occhi, quasi per assaporare meglio il calore che le scendeva nel corpo; due lacrime brillarono sotto le ciglia, scesero tracciando sulle guance due strisce nere. Quando riaprì gli occhi, luccicavano di piacere. «Chi… sei?» mi chiese ancora. «Sei un angelo?»
Sorrisi: «Te l’ho già detto, sono un uomo come tutti. Ti sembro forse un angelo? Gli angeli sono molto più alti di me, e poi hanno enormi ali…»
Lei scosse il capo, gli angoli delle labbra curvati all’insù in un sorriso modesto e discreto: «No, non è così. Forse alcuni angeli hanno le ali… ma tu per me sei un angelo, che Dio ha inviato sulla terra… perché non mi sentissi più così sola…»
Le sfiorai le guance con un dito, raccogliendo una lacrima: «Nessuno è solo, ricordalo. Neppure tu lo sei».
Mi restituì la tazza: «Ora so davvero che non ero sola: perché tu mi guardavi, pensavi a me, a quello che avresti fatto stasera… io non lo sapevo, ma tu eri con me…» Si bloccò, cercando – mi parve – di metter ordine tra pensieri troppo caotici.
Un’auto si fermò, caricò una delle ragazze e ripartì. Un cliente.
Io e Liudmila ci fissammo negli occhi; uno sguardo interrogativo, come se, arrivati ad un incrocio, non riuscissimo a decidere quale strada prendere; ma sapevamo entrambi che le nostre vie, che per quei brevi istanti si erano incrociate, sarebbero presto tornate a dividersi. Probabilmente, per sempre.
Fu lei a prendere l’iniziativa: pian piano mi circondò il collo con le braccia e premette le sue labbra umide sulle mie. Provai una scossa alla sensazione della sua bocca morbida, del suo alito che sapeva ancora di cioccolata. Era il suo modo di dirmi grazie, senza nessun’altra implicazione; era l’unica maniera che conosceva per ringraziarmi. Per questo non l’abbracciai, per questo costrinsi le mie braccia a restare inchiodate e rigide lungo i fianchi, sebbene fremessero del desiderio di circondarle la vita. Sarebbe stato troppo fuori luogo.
Il bacio – intenso, appassionato, ma al tempo stesso totalmente casto e puro – mi parve durare un’eternità; in realtà, non credo passassero più di pochi secondi. Infine si staccò, mi rivolse un ultimo sguardo colmo di gratitudine e si allontanò, quasi di corsa. Tornò al bidone in fiamme, a quell’esistenza larvale, a quella vita che non era vita.
In mano avevo ancora i venti euro. Provai l’impulso di raggiungerla, di darglieli, ma lo abbandonai subito: il mio gesto, pur fatto con le migliori intenzioni, avrebbe potuto venir frainteso, donandole del denaro l’avrei trattata né più né meno che come una prostituta. Non lo meritava.
Mi cacciai la banconota in tasca e avviai l’auto, allontanandomi. Non mi voltai indietro. Non guardai nello specchietto retrovisore.

La sera dopo, quando passai di lì, lei non c’era. Non c’era neppure la sera seguente, e nemmeno quella successiva. Fu solo dopo una settimana, mentre guardavo distratto il telegiornale, che apparve la sua fotografia. Alzai il volume. Il commentatore stava annunciando: «…La sua testimonianza ha permesso di smantellare una banda dedita al traffico delle prostitute. L’operazione, denominata Strade pulite, ha portato alla cattura di sette persone, quattro albanesi – tra cui una donna –, che gestivano lo smistamento delle ragazze nel nostro Paese, e due bielorussi e un ucraino, che provvedevano a farle giungere dai loro Paesi d’origine. La ragazza ha raccontato agli inquirenti di aver trovato il coraggio di denunciare i suoi sfruttatori dopo che un uomo, una sera, le ha offerto una tazza di cioccolata calda, senza chiederle niente in cambio; questo gesto, in sé abbastanza semplice, le ha fatto capire che non tutti gli uomini sono malvagi, che ci sono anche persone buone, che bisogna aver fiducia negli altri. La ragazza è attualmente ospite di una casa-famiglia, dove sta apprendendo un lavoro che le sarà utile in futuro. Sembra sia intenzionata a rimanere nel nostro Paese…»
Spensi la televisione e mi appoggiai allo schienale della sedia. Ero felice che avesse trovato la forza per iniziare a costruirsi una nuova vita, e ancor di più perché aveva deciso di farlo in Italia; era un po’ come se ci avesse perdonato per tutte le umiliazioni ed i dolori subiti nel nostro Paese.
«Sei un angelo?» mi aveva chiesto Liudmila. No, chiaro che non lo ero; però, forse, era stato un angelo a suggerirmi di andar lì, quella sera… il mio angelo custode… o il suo.
È curioso, come una semplice tazza di cioccolata possa cambiare la vita di una persona. Più sereno e in pace con me stesso, chiusi gli occhi e portai alle labbra la mia tazza serale di cioccolata fumante.
(anno 2007)

Cioccolato caldo

Sembra a prima vista un raccontino di Natale, tipo quelli che ti raccontano da bambino per iniziarti alla vita capace di discernere il bene dal male. Sembra un pezzetto del libro Cuore, di quel De Amicis di cui oggi non riusciresti a leggere neanche una pagina. Poi ti accorgi che è qualcosa di molto più complesso, di sottilmente psicologico e ti abbandoni alla commozione e al calore che il racconto nasconde in sé. Come una tazza di cioccolato!

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